La saggezza della tartaruga III – L’approdo

Ci vuole poco. Questo l’ho capito subito. L’anno da poco trascorso, quello precedente e l’inizio del nuovo, mi hanno riservato l’onore di un giro di prova tra le anse del sistema giuridico italiano.
Niente di ché, beninteso. Sono cosciente del fatto che la mia è soltanto una banale storia tra l’ammasso di storie banali che ingrossano a dismisura, giorno dopo giorno, il ventre abnorme -alle volte farsesco- di una stortura nazionale chiamata Diritto. Ci vuole poco per cascarci dentro. Lo dicevo prima. Qualche parola riversata su un foglio. Un timbro. Una marca da bollo. Da lì in poi comincia l’avventura, tra i gironi caliginosi di un tempo contraffatto. Mi raccomando, non perdete la speranza, voi che entrate.

Cominciò questa storia il giorno 24 gennaio 2008. Ore 11.50 circa. Ero in treno, quel giorno, regionale Milano- Torino. Nel pressi di Trecate, località di cui ignoravo prima l’esistenza, accade il tutto. Due poliziotti che chiedono i documenti a un signore senegalese che si trova in un posto accanto al mio. Il senegalese che, a sua volta, chiede lumi sul perché spetti soltanto a lui, nell’intero vagone, il privilegio di un tale controllo. Gli agenti che cominciano a spazientirsi. Io che spendo una parola, forse due, che quest’ultimi non gradiscono. Fatto è che il suddetto controllo si stende anche al sottoscritto e che quando arrivo a Torino mi pende sulla testa una bella denuncia per ingiurie.
Ho raccontato questo inizio un’altra volta, quindi evito di annoiarvi. Se a qualcuno venisse la curiosità di capire come sono andate quel giorno le cose, lo rimando volentieri al link : La saggezza della tartaruga I (https://miltonfernandez.wordpress.com/2008/01/28/la-saggezza-della-tartaruga )

Due mesi più tardi, quando cominciavo in qualche modo a dimenticare questo fatto, trovo nella mia casella postale un ordine di comparizione emesso dall’Ufficio Anticrimine della Questura. Anche questo dettaglio, con l’aggiunta di alcuni particolari, è stato già raccontato nel seguito alla prima lettera, che intitolai (con poca originalità) La saggezza della tartaruga II, e che – l’invito è rivolto al curioso di prima- volendo si può trovare al seguente link (che parola irritante):

La saggezza della tartaruga II (Il risveglio)

Ok. Ci siamo. La prima mossa è andata. All’Ufficio anticrimine lascio le mie generalità, un indirizzo in cui ricevere ulteriori notifiche e una firma in duplice copia. Non mi è concesso di leggere il verbale di accusa, cosa che potrò fare soltanto dalle mani del mio legale. In compenso mi viene assegnato un avvocato d’ufficio, del foro della mia città, con studio nella mia città, con cognome….ecc ecc.
Decido, qualche giorno dopo, di telefonare questo mio difensore, tanto per fare conoscenza. Lui mi casca dal pero. Nel tentativo di farlo rialzare prendo a ripercorre tutta la tiritera. Che sono stato presto invitato a troncare da argomenti che al momento mi sono sembrati piuttosto convincenti, e che roteavano intorno al fatto che a lui non era arrivata nessuna nomina, che il mio nome era la prima volta che lo sentiva, che Cosa poteva centrare lui con un fatto svoltosi in un posto indefinito tra Milano e Trecate e altre motivazioni di sicuro molto valide ma che a me, che non mastico il giuridichese , sono rimaste piuttosto scure. Fatto è che lui non se ne sarebbe di certo occupato, ma che nell’eventualità fosse arrivata qualche comunicazione con riferimento al mio processo, sarebbe stata la sua premura avvertirmi al più presto.
Voglio farla breve. I mesi successivi se ne sono andati nella ricerca di questo provvedimento. Al tribunale di Como, non appariva. In quello di Milano, idem. Il mio editore, anche lui avvocato, si prese la briga un giorno di scrivere al questore di Como, chiedendo una spiegazione. Questi ebbe la gentilezza di rispondere informando che il tutto era stato avviato da una richiesta della questura di Vercelli.
Ma neanche a Vercelli esisteva un fascicolo a me intitolato. Quasi quasi mi offendo.
Il 23 dicembre 2008 mi arriva la lettera di un’avvocatessa di Novara, nominata mio difensore d’ufficio da un giudice della stessa città. Apprendo così che era stata appena celebrata la prima udienza del mio processo per Ingiurie a pubblico ufficiale, nella quale sono risultato, per forza di cose, assente. La comunicazione di tale udienza pare fosse stata consegnata al primo avvocato d’ufficio, quello del foro della mia città, con studio nella mia città, con cognome della mia…insomma, quello che si sarebbe premurato di avvertirmi non appena gli fosse pervenuta una qualsiasi comunicazione.
Dopo un anno circa dalla sua stesura, riesco finalmente a posare gli occhi sulla Relazione di servizio redatta dai due poliziotti sul fatto accaduto quel giorno. In realtà le relazioni sono due, una per ciascuno, ma talmente concordanti da sembrare una fotocopia. In esse si racconta che “…durante le fasi del controllo, (del senegalese N.d.R.) un altro viaggiatore (cioè io), seduto alle spalle dello Scrivente, cominciava a inveire contro di noi e contro il Corpo di appartenenza, proferendo frasi a sfondo razziale. Lo stesso diceva che il nostro comportamento era viziato da pregiudizi di sfondo razziali. Il viaggiatore urlando all’interno del vagone, così ci apostrofava: “RAZZISTI”, “SQUADRISTI”, “FERMATE SOLO QUELLI SCURI DI CARNAGIONE PERCHE SIETE SOLO DEI RAZZISTI!!” , “VERGOGNA”, “LA POLIZIA ITALIANA FA’ SOLO IL PROPRIO DOVERE CONTRO I DEBOLI”, “ANDATE A PRENDERVELA CON I VERI DELINQUENTI” (Sic)
Insomma, roba da ricovero immediato. Altro non fosse che per le connotazioni auto-lesionistiche.

Nella seguente udienza, qualche mese più tardi, ci rivediamo finalmente in faccia, i due agenti ed io. Questa volta mi assiste una avvocatessa di Milano, di appassionato impegno etico e di disarmante umanità. Il giudice chiede alle parti se per caso fossimo arrivati a un accordo amichevole. Rispondiamo di no. Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di salutarci. Ci invita così ad andare fuori e a cercare di trovare un’intesa. Non appena usciti in corridoio, uno dei due funzionari, quello più alto in grado, si dimostra subito disponibile. Io sono disposto a finirla qui, sostiene. Sapete, nel frattempo sono stato trasferito, e per me ogni volta sono spese. Fatemi un proposta economica.”
Una proposta…?
E lui, accorgendosi delle nostre perplessità –
“E’ la prassi, no?”

Rientriamo in sala. Il giudice, ma soprattutto il Pubblico Ministero, sembrano piuttosto perplessi dell’intesa non raggiunta. Forse anche per loro “è la prassi”. Mi piacerebbe raccontare a entrambi delle mie proprie consuetudini, della mia personale concezione dell’esistenza. Del fatto che per essere colpevole di qualcosa che non ho fatto, bisogna che lo decidano loro, perché io non sono disposto a facilitargli il compito. Che sarei disposto perfino ad andare in carcere piuttosto che accettare un compromesso di così bassa lega, pur di tirarmi fuori da un pasticcio a buon mercato. E forse qualcos’altro che comunque non mi è concesso di ribadire, e credo sia stato meglio così, perché per quel giorno tutto è ormai concluso e si rimanda a tra qualche mese.
Si sono succedute diverse udienze dopo quel calcio di inizio. Novara cominciò a diventarmi familiare. Abbiamo sentito le deposizioni dell’uno e dell’altro. In tempi diversi. Quasi sempre sovrapponibili. Finita questa fase il Pubblico ministero aveva data per compiuta la fase dibattimentale. Non era previsto prendermi dichiarazioni. Che io potessi esporre la mia versione dei fatti.
Lo abbiamo chiesto, il mio avvocato ed io. Lo abbiamo preteso. Davanti alla perplessità dell’accusa, secondo la quale non era assolutamente necessario.
Così finalmente, dopo circa due anni da un innocuo scambio verbale tra un libero cittadino e due agenti di polizia, ho potuto dire la mia verità, in quel tribunale. Non avevo grandi speranze. Da più parti ero stato avvertito su un esito scontato del processo. Uno come me, venuto da lontano, ancorché italiano, ma ancora dilettante. Uno senza testimoni a favore, che cerca di ribattere le accuse di due funzionari di polizia. Roba da nemmeno sperarci.

Ieri, mercoledì 20 gennaio 2010, sono stato assolto. Il giudice, ritenute insufficienti e contraddittorie le accuse mosse nei miei confronti, ha deciso per il proscioglimento. Ho provato un enorme sollievo, nel sentire questo verdetto. Credo che Anna, il mio avvocato, fosse ancora più felice di me. E perfino l’aria gelida della campagna novarese, sembrò in qualche modo più accogliente, nel viaggio di rientro.

Ci tenevo a raccontarlo, questo finale di partita. So che non c’é niente di straordinario in questa storia, che queste cose accadono a tanti, quasi tutti i giorni. Penso però a quelli che in questi anni si sono trovati in una situazione simile, in questo labirinto kafkiano nel quale orientarsi appare presto come un’impresa disperata. A quelli che nessuno vuole sentire. A quelli per i quali nessuno mai spenderà una parola. A quelli che sono costretti a fare, volenti o nolenti, “…una proposta economica”.
So di essere stato un privilegiato in questa vicenda. Per questo non sono riuscito a smettere di pensare a loro, dal momento della sentenza in poi. Ai miei sofferti compagni di viaggio. A quei tanti miei fratelli senza voce.
Ricordo la faccia di quel senegalese che rivendicava il suo diritto a non essere trattato diversamente dagli altri. Alla dignità del suo sguardo. Alla mano che mi offrì prima di scendere dal treno.
A quelle parole che mi lasciò mio padre, e che avevo già scritto da qualche parte: Un uomo senza dignità è un morto che cammina.
Lo penso ancora.
Oggi più che mai.

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