Archive for ottobre 2021

L’ultima cena di Ernesto

Julia Cortéz entrò in quella stanza malvolentieri, ma la curiosità era più forte. Lì c’era “il mostro”.

Tutti ne parlavano. Lei voleva vederlo.

A quel minuto villaggio disperso tra le montagne, 50 anime in tutto, era arrivata qualche mese prima. Faceva la maestra.

“Avevo 19 anni, racconta. Io nemmeno sapevo chi fosse quell’uomo. Né come si chiamasse o perché lo avessero rinchiuso lì. Ci avevano detto, sì, che c’era un cubano assassino, comunista, che veniva a imporci le sue idee e a farci del male. La peggior disgrazia che potesse abbattersi sulla Bolivia. Che quel tale era a capo di una banda che uccideva e stuprava le donne. Che portava sempre una corazza e un casco di acciaio, e che ucciderlo era impossibile.” Per questo, Julia, non resistette alla tentazione di vedere finalmente quell’animale, quella bestia ferita, finalmente ingabbiata. Solo quel giorno avrebbe saputo che il suo nome era Ernesto Guevara.

“Era su una sedia, nella stanza, dietro la porta, al buio. Lo rischiarava soltanto la luce di una candela. Aveva una coperta sulle gambe e con essa copriva anche il buco della pallottola, sul fianco. Era pallido, emaciato, sporco, anche se cercava di tenersi dritto”.Il guerrigliero era appena stato catturato. Il sangue colava sul pavimento. “Immaginavo di vedere altro”, dice Julia, “ quell’uomo non faceva paura”.

Racconta allora che lui alzò la testa per vedere chi fosse entrato nella stanza. Lei era rimasta come pietrificata. – Si saluta, no?, le disse.

Lei non seppe cosa rispondere. Si girò e se ne andò di corsa.

Era il 9 ottobre 1967. La caccia all’uomo messa in atto dall’esercito boliviano coordinato dal dipartimento di stato americano e dalla Cia, si era conclusa con un brindisi. Alla Quebrada del Churo erano rimasti i corpi degli ultimi guerriglieri, e quello che rimaneva di un alito di libertà che per qualche tempo aveva sorvolato quelle cime dimenticate da Dio.

Alla “escuelita” di La Higuera, era finito Ernesto, nel suo ultimo viaggio.

“Sono tornata più tardi. La sentinella che mi aveva fatto entrare prima, mi disse che il prigioniero aveva chiesto di me. Non so perché. E ci tornai in quella stanza. Lui mi guardò e mi chiese se ero la maestra. Gli risposi di sì. Lui sorrise, indicò la lavagna con la testa e mi disse che avevo scritto “àngulo” senza accento, che quello era un errore di ortografia.

Poi cominciò a parlarmi. Non so come dire, quell’uomo che avevo davanti era diverso da tutti gli esseri umani che io avessi conosciuto. Mi parlò del perché era venuto qui. Dei suoi ideali. Della rivoluzione. Dei diritti di tutti, soprattutto dei poveri e dei dimenticati. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Anche così, in quelle condizioni, era bello. Non era il mostro di cui tutti parlavano. Le sue parole restavano dentro.

Più tardi chiesi il permesso alla sentinella di portargli un piatto di zuppa.

– Di cos’è?, mi chiese lui quando la vide.

Di manioca, risposi io. Non so se gli è piaciuta, ma la mangiò tutta quanta, in silenzio. Poi mi guardò e mi disse: Grazie.

Venti minuti più tardi – ero a casa, davanti alla scuola – sentii degli spari. Non so perché ma capii subito quello che era successo. Entrai di corsa in quella stanza. La porta era rimasta semiaperta. Lui era lì, scaraventato a terra.

“Mario Teràn, il sottufficiale dell‘esercito boliviano a cui era stato affidato il compito, era appena uscito, intriso di sudore, di paura e di polvere da sparo, col suo fucile M-2 in braccio, che questa volta pesava come non mai.

“Entrai in quella stanza malfermo sulle gambe”, racconta. “Mi avevano fatto bere non so quale intruglio per darmi forza. Ma quello si è messo in piedi, non appena mi vide. “Stai fermo e mira bene, mi disse. Stai per uccidere un uomo”.

Poi sono uscito, lasciando aperta la porta.

Per quella esecuzione gli era stato promesso un orologio e un corso di addestramento nella Scuola delle Americhe, tenuto da agenti nordamericani. Non ebbe nell’uno ne l’altro.

Ironie della storia: nel 2006, ormai quasi cieco, vecchio e malandato, è stato operato gratuitamente da medici cubani, che gli hanno ridato la vista.

Donna Julia vive ancora lì. Non fa più la maestra, ma cerca in ogni modo, pressappoco da una vita, che quella porta resti sempre aperta.

Il fascino discreto del pensiero

Ammetto di essere colpito da una forma di violenta allergia non appena avverto sentori di complottismi. A prescindere dall’argomento. Mi sembrano sempre delle scorciatoie del pensiero. E il sorriso da primi della classe dei loro portatori finisce per farmeli detestare.

L’anno scorso, però, un filosofo francese, Michel Onfray, in un libricino intitolato: Teoria della dittatura – preceduto da «Orwell e l’impero di Maastricht» (Ponte alle Grazie) – mi lasciò un semestre a parlare da solo. Sostiene, Onfray, e comincio ad essere d’accordo, che nei paesi democratici si è stabilita (o sta per) una nuova forma di regime. Una dittatura strisciante che mira a ridurre le libertà (spesso ad abrogarle), a impoverire la lingua, abolire la verità, sopprimere la storia (per poter riscriverla a piacimento), negare la natura e propagare l’odio. Questa distopia nichilista, secondo l’autore, non è propagata soltanto dagli esponenti della destra (cosa che la renderebbe meno pericolosa, visto che quando abbiamo il nemico ben nitido davanti a noi di solito siamo in grado di sviluppare degli anticorpi).

No, il problema è che, consapevolmente o meno, è il comune denominatore del pensiero progressista che si cerca di imporre. Tra noi di “sinistra”. Il principale nemico di questa dittatura culturale, il bersaglio preferito, è il pensiero (of course). Chiunque pretenda di ragionare fuori dal coro diventa un sospettato. In un mondo nel quale solo il potere può determinare cos’è giusto e cosa non lo è, pensare “diversamente” si è tramutato nel peggiore dei peccati. Come il fare domande. E aspettarsi delle risposte.

La nuova dittatura, sostiene Onfray, reprime creando leggi favorevoli al nuovo ordinamento, spesso approvate in fretta in furia, tramite decreti di emergenza che non verranno mai più cancellati. Pensiamo all’esercito in strada durante il periodo dell’emergenza terrorismo. Quell’emergenza è finita ma i soldati sono ancora lì. L’altro elemento fondamentale, come lo è stato in tutte le dittature convenzionali, si chiama “rivoluzione culturale”. La si porta avanti strumentalizzando i mezzi di informazione, impoverendo la lingua e riscrivendo la storia. In questo modo il “pensiero pericoloso” morirà di morte naturale, non trovando le parole per esprimersi. Questo attacco alla lingua, dice Onfray, comincia a scuola. Quella scuola che ha progressivamente distrutto il metodo di lettura e di approccio alla letteratura che insegnarono a pensare (appunto) diverse generazioni.

Per lui – parlo sempre del francese – l’obiettivo è chiaro: Creare esseri umani adulti vuoti e piatti, sterili e privi di profondità, che accettano pedissequamente gli ordini impartiti, totalmente compatibili col modello che si sta cercando di imporre. In questa landa in cui la cultura risulta totalmente prescindibile, anacronistica, persino non raccomandabile, gli incapaci prendono il potere, qualsiasi potere. Cresce l’analfabetismo, persino tra quelli che hanno finito gli studi superiori. Gli insegnanti leggono sempre meno e si rivelano (a volte persino lo confessano) incapaci di dare un’opinione su temi di una certa complessità.

Questa avversione verso il libro e verso la scrittura, in relazione all’autore, all’ortografia, allo stile, alla grammatica, alla sintassi, alla letteratura, ai classici ma anche al vocabolario, ha permesso di formare una massa ignorante che lentamente sta prendendo il potere, ovunque. Non so, detesto i complottisti, come dicevo prima. Ma in queste ore, vedendo i personaggi del mondo politico – quei progetti di individui che stanno discutendo e decidendo sul nostro futuro e quello dei nostri figli – discorrere per delle ore senza esprimere un solo pensiero originale, qualche dubbio mi viene.

Cosa c’è di meglio, dice Onfray, che un imbecille nei posti del potere per costruire direttamente altre due o tre generazioni di imbecilli? Non so perché, leggendolo, mi è venuto in mente Buñuel e il suo “Le charme discret de la bourgeoisie“.

Ora la smetto con i francesi. Mi rovinano la giornata.