Enrico Calamai

Lo Schindler italiano nell’Argentina dei generali

Aveva 25 anni Enrico Calamai, nel 1972. Nato a Genova, da poco si trovava a Buenos Aires, alle dipendenze del Consolato Italiano. Era un lavoro di basso profilo, il suo. Si occupava di pensioni, passaporti, tramiti burocratici. “Uno tra i tanti”, a dir suo, “tantissimi giovani ai gradini più bassi del funzionariato italiano”.

Nel ’73 arriva la dittatura in Cile. Una delle più sanguinarie mai esistite. L’Italia non riconosce il governo di Pinochet, appena instauratosi. Ritira l’ambasciatore, lasciando soltanto un addetto commerciale, al suo posto. L’ambasciata però comincia da subito a riempirsi di ricercati che cercano di scappare al massacro. I militari non possono entrare ma cingono d’assedio l’edificio.

Una notte, il corpo di una donna, Lumi Videla, violentata e torturata fino alla morte, viene scaraventato in cortile, dopo un volo sopra i muri di cinta. L’addetto commerciale italiano sporge denuncia alle autorità cilene, ed è immediatamente dichiarato “persona non grata”.

Viene inviato sul posto Enrico Calamai, col compito di garantire il “funzionamento interno della sede diplomatica”. I rifugiati gli trovano una stanza e lui comincia a convivere con loro. Dopo mesi d’assedio, e di trattative, Pinochet autorizza la loro partenza verso l’Italia. Enrico Calamai li accompagnerà in aeroporto, garantendo per la loro incolumità. Prima di tornare in Argentina, con l’ambasciata ormai vuota, gli tocca assistere alla scena di un ragazzo che, dalla strada, cercava disperatamente di arrampicarsi sul filo spinato, ma veniva strappato a forza dai militari. Di lui non si saprà più nulla.

Quell’immagine non lo avrebbe più abbandonato.

Già a Buenos Aires, quando i ricercati si presentavano nel suo ufficio, all’Ambasciata, chiedendo di essere protetti, o quando erano i genitori a presentarsi, disperati perché i loro figli erano stati inghiottiti dal nulla e nessuno sembrava disposto a dare loro una risposta, a lui tornava in mente quella scena, i carabineros che si portavano via quel ragazzo, in Cile, verso la tortura, le sevizie e una morte sicura.

Cominciò a stendere una rete, all’insaputa del Console generale, suo superiore, che non sembrava disposto a interferire con le decisioni dei militari.

Falsificò documenti, convinse dirigenti di compagnie aeree a far partire dei dissidenti verso l’Europa con false carte d’identità con le quali avrebbero potuto, a malapena, spostarsi verso le capitali vicine, Montevideo o Rio de Janeiro.

Tra i tanti, arrivarono una sera all’ambasciata un padre con i suoi due figli. Erano ricercati. Condannati a morte. Non avevano con sé né soldi né documenti.

L’ambasciatore li ricevette e dopo averli ascoltati chiese loro di lasciare immediatamente l’edificio. Calamai si offrì di accompagnarli fino all’uscita ma quel che fece fu nasconderli in una saletta appartata del palazzo. Più tardi li portò a dormire a casa sua. E finalmente in un convento, nei pressi del porto di Buenos Aires. “I preti li accolsero ma il padre superiore non ne voleva sapere, aveva paura. Fu una situazione angosciante, ci sentivamo addosso una pressione tremenda, il rischio era imminente.” Alla fine riuscì a procurargli dei documenti e a farli partire verso l’Italia.

Almeno 300 persone sono state strappate a una morte sicura, senza distinzioni tra connazionali e latinoamericani, da quello che viene, da molti, definito come lo “Schindler italiano a Buenos Aires”. Un eroe scomodo per il governo italiano, che lo rimandò in patria appena possibile, togliendosi un sassolino dalle scarpe che rischiava di mettere a repentaglio accordi di sicura rendita per l’uno e l’altro paese.

Nel 2004 Enrico Calamai fu insignito, nell’Ambasciata della Repubblica Argentina a Roma, della Cruz de la Orden del Libertador San Martin, per essersi battuto in difesa dei diritti umani durante gli anni della dittatura.

Ha contribuito, inoltre, a fondare il “Comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani” ed è autore del libro: Niente asilo politico. Diario di un console italiano nell’Argentina dei desaparecidos.

Dal 12 aprile 2010 a Enrico Calamai sono dedicati un albero e un cippo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano.

Enrico Calamai sarà nostro ospite, il 14 maggio 2023, nell’ambito del Festival Internazionale di Poesia di Milano.

Habeas corpus

Mi è capitato, qualche anno fa, di assistere a Madrid a una conferenza sulla Corrida. Il relatore era un professore universitario innamorato del tema, un signore posato e gentile che spiegò, per circa due ore, quell’intreccio ingarbugliato di passioni primarie e secolari che continua a far discutere, e a radunare folle entusiaste ogni domenica, “a las cinco en punto de la tarde”.

Mentre stava per congedarsi, e raccomandava vivamente a ciascuno di noi di assistere alla Corrida, almeno una volta nella vita, al professore venne in mente un aneddoto che, se ci avesse riflettuto, forse si sarebbe risparmiato volentieri.

Non c’era mai stato un torero come quello, disse. Bello, impavido, elegante. Il toro faceva tutto quello che a lui veniva in mente. Cose che strappavano grida di ammirazione tra i suoi sostenitori, che si spellavano le mani a suon di applausi. E lui, con le sue veronicas di astratta geometria, continuava imperterrito a far impazzire il pubblico che affollava di Olè l’aria domenicale di quei pomeriggi ormai avviati a sera.

Un giorno, però, un toro diverso dagli altri si rifiutò di morire. Rubò al torero il suo istante fatale e se lo portò in trionfo, infilato in una delle corna, per tutto il ruedo. Quando riuscirono a strapparglielo, il matador era morto.

L’animale fu riportato alla fattoria nella quale era cresciuto e mai più fatto combattere. I parenti del torero morto, non appena seppellito il loro congiunto, rintracciarono il proprietario e gli fecero una proposta d’acquisto, che lui rifiutò. L’offerta fu ripresentata, anno dopo anno, fino a quando il vecchio allevatore morì. Ormai, anche il toro era invecchiato. Chissà se si ricordava di quella domenica gloriosa nella quale aveva fatto ammutolire una moltitudine?

I figli del proprietario, che non avevano assistito al suo trionfo, e forse neanche ne avevano sentito parlare, si sorpresero della generosità di quell’offerta avanzata da sconosciuti per un animale che oramai non serviva più a nulla. Decisero di venderlo. Gli acquirenti lo fecero portare nella loro tenuta. Per il resto della settimana non vollero vederlo. Quando arrivò la domenica, si vestirono a festa tutti quanti, fecero rinchiudere il vecchio toro nella stalla e alle cinque e un quarto, ora in cui l’orologio si era fermato per loro, tanti anni addietro, si trovarono davanti a lui. Chissà cosa passò per la testa alla bestia in quell’istante. Chissà cosa provarono i parenti del torero morto, mentre s’accanivano su di lei.

Quella stessa sera, l’intera famiglia, in comitiva, si recò al cimitero, a deporre la coda dell’animale sulla tomba del congiunto. Gli impiegati ai quali era stato ordinato di trascinare la bestia e di lasciarla in mezzo al campo, in pasto ai rapaci, non riuscivano a raccontare quello che avevano visto. Gli occhi svuotati a coltellate, la lingua tagliata, quel corpo prodigioso crivellato di pugnalate…

Non so poi cosa aggiunse, il professore. A questo punto ero già andato via. Il cattivo umore dell’inizio cominciò presto a tramutarsi in una tristezza infinita. Verso di noi, tutti.

La domenica, comunque, andai a vedere una corrida. La prima (e ultima) della mia vita. Mi sentii strano. Fuori posto. Confesso che passai il pomeriggio a fare il tifo per il toro.

Ci sarà mai qualcosa di paragonabile alla stupidità dell’essere umano?

Palabras andantes (1)

1

Non riesco a dormire. Ho una donna di traverso nelle palpebre. Se potessi, le direi di andare via; ma ho una donna di traverso nella gola.

2

Strappami, Signora, i vestiti e i dubbi. Spogliami. Sdubbiami.

3

Mi addormento sulle rive di una donna; mi addormento sulle rive di un abisso.

4

Mi sciolgo dall’abbraccio, esco per strada.

In cielo, mentre albeggia, si staglia, sottile, la luna.

La luna ha due notti di età.

Io ne ho una.

Eduardo Galeano (Trad. di M.Fernández)

Danae

Questa immagine è ormai familiare. Nessuno si scandalizza, nemmeno quel bigotto dell’algoritmo, sempre in allerta su queste spiagge.

Il quadro si chiama Danae, o La pioggia dorata. Questo lo sappiamo.

Ed è stato dipinto da Gustav Klimt intorno al 1907.

Nessuno ci racconta (ieri ho provato a farlo con la madre di un’amica e credo di essermi giocato la sua stima) che in verità è la rappresentazione di un amplesso, nel momento della sua massima intensità.

Danae è l’unica figlia di Euridice e Acrisio. A quest’ultimo, l’oracolo vaticina la sua morte per mano di un nipote, che prima o poi arriverà.

Acrisio rinchiude quindi Danae in una cella di bronzo, dove dovrà vivere fino alla fine dei suoi giorni, onde evitare che possa restare incinta, dando alla luce quel suo uccisore predetto dall’oracolo.

La bellezza della ragazza, però, è ormai nota. Arriva persino all’orecchio di Zeus, uno che, quando si tratta di femmine, non si lascia fermare da nessun ostacolo.

Appena calata la notte, il divo s’avvicina all’ingresso della cella, una grata posta al di sopra del letto sul quale giace la ragazza. E, non potendo entrare, fa calare su di lei la sua urina, quella “pioggia dorata” con la quale seduce e ingravida Danae.

La leggenda poi è nota. Da questo amplesso nascerà Perseo, che tra tante altre cose taglierà la testa alla Medusa e, più tardi, per un colpo mancino della fortuna, farà fuori Acrisio, colpendolo in testa con un disco, maldestramente lanciato durante una gara sportiva.

Della serie, mai cercare di dribblare il tuo destino.

Tornando all’immagine. Tutti (molti) hanno dipinto questa scena, dal Correggio ad Artemisia Gentileschi.

Nessuna ci è rimasta, però, così fortemente attaccata ai sensi, come questa raffigurazione di Klimt.

Non è una figura passiva che accetta passivamente la seduzione del dio, quella di Danae, qui.

La sua sensualità, il suo accennato autoerotismo, esprime una forza mai vista prima; l’immagine della donna nel secolo che da quel ventre stava appena nascendo, tale e quale la immaginava il pittore: libera, potente, scandalosa, pronta a cancellare i vecchi precetti sociali e a prendere il posto che le spettava nel mondo.

Poi le cose sono andate come sono andate. Ciascuno tragga le proprie conclusioni.

Resta la bellezza, imperitura. Che a molti ha fatto innamorare.

Che a Klimt costò il carcere e il manicomio, e a me, forse, il saluto della madre della mia amica.

Questo vizio di raccontare storie…

Blow up

Secondo Sarte (Esquisse d’une théorie des émotions), la rabbia differirebbe dalla gioia solo per dettagli tipo intensità del ritmo respiratorio, del tono muscolare, dello scambio biochimico e la pressione arteriosa. Quisquilie, che possono variare da un momento all’altro, senza preavviso, e che avvengono tutte all’interno di uno sconosciuto chiamato corpo.

Guardo le figure che mi passano accanto nella rituale passeggiata sul lungolago. Tutti scattano fotografie, milioni di fotografie. A qualunque cosa si muova. Soprattutto a sé stessi.

Le facce da fotografia sono sempre gioiose, vorrebbero somigliare alla felicità. Poi, appena avvenuto lo scatto, ciascuno torna a quella che indossava un secondo prima.

“Ciò che cattura il reale non è il tuo occhio dietro la lente, né l’immagine fissa e quieta che lo sopravviverà. Ciò che cattura il reale è quell’istante statico, illusorio: la detenzione fallace contrapposta all’inesistente quiete,” ho letto poco fa in un libro che sto traducendo.

Lo sappiamo, perché non siamo nati ieri, che quella felicità Prêt-à-porter non somiglia a quella che abbiamo una volta assaggiato, o augurato.

Che, come il dolore, non è stata mai del tutto sconosciuta, o dimenticata. Altrimenti perché continueremo a cercarla?

Il corpo si presta. L’immagine che cattura un bacio è merito spesso della riflessione della luce. Non è il bacio, ma la sua rappresentazione. I corpi – guardate i corpi – non sono quasi mai immersi in quella totalità (sanno di essere guardati, che resteranno per sempre lì, e a quella eternità, per quanto vaga, bisogna presentarsi in un certo modo).

Eppure, è dalla sua capacità di contatto con l’altro che nasce la voluttà, o meglio ancora, il piacere che mi fa assaporare nella voluttà il mio corpo… dice Galimberti.

Chissà. Forse aveva ragione Faust – malato di struggente nostalgia per i momenti felici (quelli che la fotografia vorrebbe far diventare immortali) – quando suggeriva a Goethe: “…fermati, istante, sei così bello!”

Ernesto Cardenal – Orazione per Marilyn Monroe

Signore

accogli questa ragazza conosciuta in tutta la terra con il nome di

Marilyn Monroe

anche se questo non era il suo vero nome

(ma tu lo sai il suo vero nome, quello di un orfanella violentata a

nove anni

la piccola commessa che a sedici aveva cercato di suicidarsi)

e che ora si presenta al Tuo cospetto senza un’ombra di trucco

senza il suo agente

senza fotografi e senza autografi da firmare

sola come un astronauta di fronte alla notte spaziale.

Aveva sognato quando era bambina di trovarsi nuda in una chiesa

(secondo quanto raccontato al Time)

davanti a una moltitudine genuflessa, con le teste appoggiate a terra

e doveva camminare in punta di piedi per non calpestarle.

Tu conosci i nostri sogni meglio degli psichiatri.

Chiesa, casa, antro, sono la sicurezza del seno materno

ma anche qualcos’altro…

Le teste sono gli ammiratori, è chiaro

(l’ammasso di teste al buio sotto lo schizzo di luce).

Ma il tempio non sono gli studios della 20th Century-Fox.

Il tempio – di marmo e oro – è il tempio del suo corpo

nel quale c’è il Figlio dell’uomo con una frusta in mano

cacciando via i mercanti della 20th Century-Fox

che fecero della Tua casa di preghiera una caverna di ladri.

Signore

in questo mondo contaminato dai peccati e dalla radioattività

tu non condannerai una piccola commessa

che come ogni commessa sognava di diventare una stella del cinema.

E il suo sogno diventò realtà (ma dalla realtà del technicolor).

Lei non fece altro che recitare il copione che le abbiamo dato

quello delle nostre vite- .

Ed era un copione assurdo.

Perdonala Signore e perdona anche noi

per la nostra 20th Century

per questo Colosal Super-Production nel quale abbiamo lavorato tutti.

Lei aveva fame di amore e le abbiamo offerto dei tranquillanti.

Per la tristezza di non essere santi

le consigliarono la psicoanalisi.

Ricorda Signore la sua crescente paura della macchina da presa

e l’odio verso il trucco – insistendo a rifarsi il trucco a ogni scena-

e come diventò man mano più grande il suo orrore

e più grande l’impunità degli studios.

Come ogni piccola commessa

sognò di diventare una stella del cinema.

E la sua vita fu irreale come il sogno che uno psichiatra interpreta ed archivia.

Le sue storie d’amore furono uno di quei baci con gli occhi chiusi

quando si aprono

si scopre che tutto s’era svolto sotto i riflettori

mentre qualcuno smonta le due pareti della camera (era un set cinematografico)

mentre il regista si allontana con il suo quaderno

perché la scena è già stata girata.

O come un viaggio sullo yacht, un bacio a Singapore, un ballo a Rio,

il ricevimento nel castello del Duca e la Duchessa di Windsor

visti dal salottino dell’appartamento miserabile.

Il film si concluse senza il bacio finale.

La trovarono morta nel suo letto col telefono in mano.

E i detective non seppero dire chi stesse chiamando.

Come quando qualcuno fa il numero dell’unica voce amica

e sente soltanto la voce di un disco che ripete: WRONG NUMBER.

O come quando qualcuno, ferito dai gangster

allunga la mano verso un telefono staccato.

Signore.

chiunque fosse colui che lei stava per chiamare

e non chiamò (forse non era nessuno

o forse Qualcuno il cui numero non appare nella rubrica di Los Angeles)

per favore

rispondi Tu al telefono!

(Trad. di Milton Fernández)

Non glielo avrei mai detto che il suo nome mi arrivava come i profumi che attirano e respingono allo stesso tempo, come la tentazione di accarezzare il dorso di un rospetto dorato sapendo che il tuo dito sfiorerà l’essenza intima della viscosità.

Come dirlo a qualcuno se tu stesso non avresti potuto sapere che la sola menzione del tuo nome, il passaggio della tua immagine in un qualsiasi ricordo altrui mi denuda e mi ferisce, mi spinge in me stessa con quella spudoratezza che nessun specchio, nessun atto amoroso, nessuna riflessione spietata possono dare con tanto astio: che a modo mio ti amo e che quel sentimento ti condanna perché ti fa diventare il mio accusatore, colui che per amarmi e per essere amato mi depreda e mi denuda e mi costringe a vedermi come in verità sono.

Julio Cortázar – 62/Modelo para armar

(Traduzione Milton Fernàndez)

La svegliatrice

Quella nelle foto è Mary Smith.

Mary Smith di mestiere faceva la Knocker-up (o knocker-upper).

La sveglia umana, insomma.

Ogni giorno della sua vita, domeniche comprese (da un certo momento in poi), si alzò alle tre del mattino per cominciare a scarpinare le strade operaie di Londra.

Il suo lavoro consisteva in svegliare i lavoratori, lanciando dei fagioli alla loro finestra, con una cerbottana, per mandarli a lavorare.

Per più di trenta’anni, dal 1930 in poi, Mary, dai marciapiedi, bussò – a modo suo – alle finestre delle classi umili, che non potevano permettersi una sveglia meccanica, e nemmeno di mancare al lavoro.

Per sei penny alla settimana, Mary garantiva l’alzata dell’interessato (l’accordo prevedeva che non sarebbe andata via da quel marciapiede fino a quando costui non avrebbe risposto, e in modo convincente).

Ce ne furono altri, ma Mary fu una delle più longeve, in quell’arte (in quel mestiere).

In molti raccontano che per ciascuno di loro quei fagioli eseguivano un ritmo percutivo diverso, nel rimbalzare sul vetro. Mai troppo invadente. Severo e musicale. Che li faceva alzare di buonumore.

Mary Anne Smith cedette il posto – e il suo attrezzo, la cerbottana – alla figlia Molly, alla fine dei suoi giorni, che lo portò avanti fino a metà degli anni ’70.

Si dice sia stata l’ultima Knocker-up di Londra.

La finestra sul cortile (1)

Cronache di un anno senza storia

Domenica di Pasqua. Oggi il nulla prende posizione. Da qualche parte voci di comari premurose nel tentativo di dare una parvenza di sacralità al giorno. Le campane del prete. La sirena di un’ambulanza, il più consueto dei suoni, da qualche parte, in qualche strada, verso un posto che ormai non conta nulla. Fuori da questa finestra c’è il mondo che una volta ho conosciuto. Ci penso spesso. La mia unica possibilità di cielo aperto. Un pertugio che tiene in me viva la certezza che da qualche parte c’è stata una volta la libertà. I suoni. Faccio fatica a riportarli indietro. Il portinaio che, ogni sera, alle 11, spingeva fuori i bidoni della spazzatura. L’abbaiare afono e fastidioso del vecchio cagnolino di una vecchia signora al terzo piano che ormai non c’è più. La ragazza tenace che duellava ogni giorno col suo pianoforte, senza mai riuscire a strappargli una nota degna di chiamarsi tale. Il gesto cordiale del vicino del terrazzo di fronte, con la tazzina di caffè in mano, come un invito, il giorno in cui ci siamo visti per la prima volta.Dove sono andati tutti quanti? Dove quei rumori della vita intorno che una volta percepivo con fastidio e che oggi pagherei per risentire? Tutto quello che era consueto è diventato irreperibile. Perché la normalità ci sembra a volte così necessaria?Perché se abbiamo cercato , se ho cercato, di scacciarla per tutta la vita. Come un vestito che qualcuno insisteva a cucirmi addosso, e che io mi rifiutavo di indossare. Come quel vicino del terrazzo di fronte, quel caffè condiviso. Il debussy appena sfiorato di una ragazza con la quale non ci siamo mai visti. Il portinaio. Il vecchio cagnolino della vecchia signora, che spero continui ad abbaiare, da qualche parte.

L’ultima cena di Ernesto

Julia Cortéz entrò in quella stanza malvolentieri, ma la curiosità era più forte. Lì c’era “il mostro”.

Tutti ne parlavano. Lei voleva vederlo.

A quel minuto villaggio disperso tra le montagne, 50 anime in tutto, era arrivata qualche mese prima. Faceva la maestra.

“Avevo 19 anni, racconta. Io nemmeno sapevo chi fosse quell’uomo. Né come si chiamasse o perché lo avessero rinchiuso lì. Ci avevano detto, sì, che c’era un cubano assassino, comunista, che veniva a imporci le sue idee e a farci del male. La peggior disgrazia che potesse abbattersi sulla Bolivia. Che quel tale era a capo di una banda che uccideva e stuprava le donne. Che portava sempre una corazza e un casco di acciaio, e che ucciderlo era impossibile.” Per questo, Julia, non resistette alla tentazione di vedere finalmente quell’animale, quella bestia ferita, finalmente ingabbiata. Solo quel giorno avrebbe saputo che il suo nome era Ernesto Guevara.

“Era su una sedia, nella stanza, dietro la porta, al buio. Lo rischiarava soltanto la luce di una candela. Aveva una coperta sulle gambe e con essa copriva anche il buco della pallottola, sul fianco. Era pallido, emaciato, sporco, anche se cercava di tenersi dritto”.Il guerrigliero era appena stato catturato. Il sangue colava sul pavimento. “Immaginavo di vedere altro”, dice Julia, “ quell’uomo non faceva paura”.

Racconta allora che lui alzò la testa per vedere chi fosse entrato nella stanza. Lei era rimasta come pietrificata. – Si saluta, no?, le disse.

Lei non seppe cosa rispondere. Si girò e se ne andò di corsa.

Era il 9 ottobre 1967. La caccia all’uomo messa in atto dall’esercito boliviano coordinato dal dipartimento di stato americano e dalla Cia, si era conclusa con un brindisi. Alla Quebrada del Churo erano rimasti i corpi degli ultimi guerriglieri, e quello che rimaneva di un alito di libertà che per qualche tempo aveva sorvolato quelle cime dimenticate da Dio.

Alla “escuelita” di La Higuera, era finito Ernesto, nel suo ultimo viaggio.

“Sono tornata più tardi. La sentinella che mi aveva fatto entrare prima, mi disse che il prigioniero aveva chiesto di me. Non so perché. E ci tornai in quella stanza. Lui mi guardò e mi chiese se ero la maestra. Gli risposi di sì. Lui sorrise, indicò la lavagna con la testa e mi disse che avevo scritto “àngulo” senza accento, che quello era un errore di ortografia.

Poi cominciò a parlarmi. Non so come dire, quell’uomo che avevo davanti era diverso da tutti gli esseri umani che io avessi conosciuto. Mi parlò del perché era venuto qui. Dei suoi ideali. Della rivoluzione. Dei diritti di tutti, soprattutto dei poveri e dei dimenticati. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Anche così, in quelle condizioni, era bello. Non era il mostro di cui tutti parlavano. Le sue parole restavano dentro.

Più tardi chiesi il permesso alla sentinella di portargli un piatto di zuppa.

– Di cos’è?, mi chiese lui quando la vide.

Di manioca, risposi io. Non so se gli è piaciuta, ma la mangiò tutta quanta, in silenzio. Poi mi guardò e mi disse: Grazie.

Venti minuti più tardi – ero a casa, davanti alla scuola – sentii degli spari. Non so perché ma capii subito quello che era successo. Entrai di corsa in quella stanza. La porta era rimasta semiaperta. Lui era lì, scaraventato a terra.

“Mario Teràn, il sottufficiale dell‘esercito boliviano a cui era stato affidato il compito, era appena uscito, intriso di sudore, di paura e di polvere da sparo, col suo fucile M-2 in braccio, che questa volta pesava come non mai.

“Entrai in quella stanza malfermo sulle gambe”, racconta. “Mi avevano fatto bere non so quale intruglio per darmi forza. Ma quello si è messo in piedi, non appena mi vide. “Stai fermo e mira bene, mi disse. Stai per uccidere un uomo”.

Poi sono uscito, lasciando aperta la porta.

Per quella esecuzione gli era stato promesso un orologio e un corso di addestramento nella Scuola delle Americhe, tenuto da agenti nordamericani. Non ebbe nell’uno ne l’altro.

Ironie della storia: nel 2006, ormai quasi cieco, vecchio e malandato, è stato operato gratuitamente da medici cubani, che gli hanno ridato la vista.

Donna Julia vive ancora lì. Non fa più la maestra, ma cerca in ogni modo, pressappoco da una vita, che quella porta resti sempre aperta.